La storia della fototerapia – prima parte

Questo articolo rappresenta un’introduzione alla storia della fototerapia. Scopriamo insieme come è nata questa disciplina, oggi sempre più diffusa a livello nazionale e mondiale.
FOTOTERAPIA: LA STORIA
Nel maggio del 1856, a Londra, nel salone della società reale di medicina, lo psichiatra e fotografo Hugh Welch Diamond lesse la sua relazione “Sull’applicazione della fotografia nella fisiognomica e nei fenomeni mentali della follia“.
Diamond nella sua relazione descriveva quelle che a suo parere erano le possibili funzioni della fotografia in ambito psichiatrico.
Una prima funzione, scientifica, che consisteva nella possibilità di registrare, e quindi documentare, in maniera precisa e dettagliata i tratti fisiognomici dei malati, producendo così del materiale di ricerca utile per gli studi futuri.
Una funzione sociale, in quanto le fotografie aiutavano le forze dell’ordine e i servizi sanitari nell’identificazione di individui potenzialmente pericolosi per la società.
Ma ciò che per questo approfondimento risulta più rilevante su tutti gli altri aspetti, Diamond ha riconosciuto un potenziale ruolo facilitatore della fotografia nel processo di cura dei suoi pazienti. E’ per questo che si considera quel 22 maggio la data dell’inizio del processo di costruzione della disciplina fototerapeutica e Diamond come il suo precursore.
ALCUNI CASI CLINICI
Nella sua relazione il dottor Diamond riportava alcuni casi esplicativi, esperienze in cui la fotografia aveva contribuito al buon esito dei trattamento effettuati nel manicomio femminile di Surrey, di cui all’epoca era direttore.
Il primo caso era di una giovane donna, una madre affetta da quella che oggi definiremmo depressione post partum. La paziente era stata fotografata nelle varie fasi del suo percorso riabilitativo e in questo modo – grazie alle immagini – poté prendere consapevolezza della trasformazione positiva cui era andata incontro.
Il secondo caso riportato da Daimond trattava di un’altra giovane donna che si considerava una regina. La ragazza fu sottoposta a frequenti sedute fotografiche e le discussioni che seguivano i ritratti, con le riflessione che ne scaturivano, rappresentarono un primo passo significativo verso la sua guarigione.
Thomas Nadaud Brushfield – direttore del manicomio di Chester – nel 1857, dopo aver letto un riassunto della conferenza di Diamond, scrisse un articolo sul “Photographic Journal” in cui affermò di aver riscontrato anch’egli simili effetti positivi della fotografia sui suoi pazienti.
Raccontava come i malati si sentissero gratificati nel rivedere i loro ritratti, in particolare quando questi ritratti venivano messi a confronto con quelli degli altri ospiti.
Ancora, una delle testimonianze più dettagliate sulle reazioni dei pazienti a seguito del confronto con i loro ritratti è attribuibile a William Charles Hood, responsabile del manicomio di Bethlem dal 1852 al 1862. Il dottor Hood narrava come le sedute fotografiche rappresentassero una fonte di gratificazione e benessere per i suoi pazienti.
“I pazienti cominciavano a dirigere la loro attenzione verso il loro modo di vestirsi e il loro aspetto fisico, il loro viso e la loro postura. Questo interessamento alla propria immagine porta spesso risultati salutari“.
GLI SVILUPPI DELLA DISCIPLINA
Giunti a questo punto della storia potremmo aspettarci che nel ‘900, definito il secolo delle immagini grazie alla diffusione capillare di fotografia, cinema e televisione, nonché secolo della psicanalisi e della cultura di massa sarebbe stata definita e sviluppata una vera e propria disciplina autonoma basata l’utilizzo della fotografia come mezzo per aiutare le persone ad esplorare il proprio mondo interiore.
In realtà non è stato esattamente così. Le esperienze in questa direzione sono state numerose, ma isolate. Vediamo di seguito alcuni riferimenti a personaggi illustri della cultura dell’epoca.
Negli anni ’20 Abram Kardiner, uno psicanalista americano, nel suo libro “La mia analisi con Freud” racconta che alla fine del suo percorso terapeutico, nel 1922 con il Padre della Psicanalisi, chiese e ricevette una sua fotografia con autografo. Secondo Linda Berman – autrice del libro “La fototerapia in psicologia clinica” – questo aneddoto dovrebbe portarci a pensare che già Freud fosse consapevole dell’importanza che la fotografia avrebbe potuto avere nella fase di separazione tra terapeuta e paziente.
Negli anni ’40, invece, Jacob Levi Moreno – pionere dello psicodramma – era solito usare di frequente le fotografie come stimolo di attivazione per i suoi incontri di gruppo. Lo stesso Moreno, con le sue applicazioni, sarà poi indispensabile nella formulazione dei progetti di fototerapia di Jo Spence degli anni ’80.
Ancora, Carl Rogers, che ha dato l’avvio alla corrente umanista della psicologia, utilizzava le fotografie come stimolo durante le sue terapie non direttive.
Per adesso mi fermo qui. In un secondo articolo ti racconterò gli sviluppi più recenti e le tecniche che sono state sviluppate da professionisti internazionali. Intanto, se hai domande sull’argomento puoi scrivermi: